Tuesday 5 March 2013

The Ghost of Tom Joad: un album per non dimenticare




Capitolo primo


The Ghost of Tom Joad: un album per non dimenticare



Bruce Springsteen, cantante di fama internazionale, è stato frequentemente vittima di giudizi troppo affrettati e poco lusinghieri. Spesso si è voluto scorgere nella sua figura l’immagine classica della rockstar ipocritamente impegnata nel sociale e, in verità, tutta concentrata a promuovere la propria immagine.

Una delle accuse più recenti risale proprio al 2002, quando, dopo gli attentati al World Trade Center di New York del Settembre 2001, venne pubblicato l’album The Rising, nel quale viene ben descritto lo stato emotivo in cui versava l’America il giorno dopo la strage.

In realtà, ci troviamo dinanzi a un cantautore la cui vita e produzione artistica sembrano seguire un percorso abbastanza coerente,  come può evincersi da un’analisi attenta dei suoi testi. Sin dagli esordi, infatti, oggetto d’interesse è sempre stata la realtà sociale del suo Paese, con particolare attenzione per “l’ambiente del proletariato e sottoproletariato urbano giovanile delle città della costa orientale degli Stati Uniti”[1].

Tale interesse nasce proprio a partire dalle sue origini: membro di una delle tante famiglie che, negli anni ’50 e ’60, si ritrovarono escluse da quella che era la situazione economica particolarmente prospera della quale poteva godere la maggioranza delle famiglie statunitensi[2].

Originario di una piccola cittadina del New Jersey, Freehold, l’ambiente in cui crebbe fu prevalentemente antintellettuale. Tuttavia, ad un certo punto, sotto la spinta di colui che ne consacrò la fama, Jon Landau[3] (suo produttore ed amico), cominciò ad assaporare anche il piacere della lettura.

Così, qualche anno dopo, arrivò a dire: “... mi è parso che avevamo tutti una cosa in comune e cioè che non ne sapevamo abbastanza, non sapevamo abbastanza di quello che ci succedeva. Facendo un esempio, solo ora che ho trentun’ anni mi sono messo a leggere la storia degli Stati Uniti ... E il fatto è che ho cominciato a imparare come mai le cose oggi stanno così e non in un’altra maniera, come si finisce per essere una vittima senza nemmeno saperlo. E come la gente invecchia e muore senza avere mai avuto un giorno di soddisfazione o pace interiore in tutta la vita.”[4]

Era il 1981 quando Springsteen pronunciò queste parole dinanzi al pubblico di Stoccolma, accorso a vedere un concerto rock. Da quel momento le citazioni di film o libri furono frequenti e non perché ci troviamo dinanzi al classico artista che assume “pose da intellettuale”[5], ma, semplicemente, perché quest’artista pensa fermamente che la sua arte gli offra la possibilità di comunicare qualcosa al suo pubblico, qualcosa che sia realmente importante.

Aggiungiamo a questa convinzione una sensibilità profonda e un’attenzione particolare verso tutto ciò che lo circonda, un’attenzione rivolta alla vita degli uomini comuni che lottano nel quotidiano, con la conseguente sequela di frustrazioni, emarginazioni, ingiustizie: ciò che ne viene fuori è un prodotto che, oltre ad offrire della buona musica, può lasciare la sensazione di dover riflettere su qualcosa o, ancora meglio, di doversi impegnare nella comprensione di realtà che, pur non toccandoci personalmente,  esistono.

Altro elemento comune a tutti i testi è il teatro dell’azione: l’America dei giorni nostri. Questa caratteristica ha spesso tratto in inganno non poche persone (critici, commentatori o semplici ascoltatori), le quali hanno voluto scorgere nella figura di Springsteen quella del “bullo” Americano, vuoto, privo di validi argomenti e tutto concentrato ad esaltare le meraviglie di quella Terra Promessa cui ha avuto la “fortuna“ di appartenere.

In un’occasione l’equivoco fu così clamoroso da creare un piccolo incidente diplomatico con l’allora candidato alla presidenza degli Stati Uniti, Ronald Reagan: nel 1984, anno della pubblicazione dell’album Born in the U.S.A., il Presidente uscente, alla ricerca della riconferma, cercò di utilizzare la title track come inno introduttivo della sua campagna elettorale, elogiandone i contenuti patriottici; una gaffe quasi spassosa, se si considera che il testo trasuda di severe critiche nei confronti della politica socio-economica degli Stati Uniti. Un riferimento esplicito di Springsteen alla cattiva interpretazione da parte del Presidente[6] e, probabilmente, una più attenta valutazione del testo da parte dei suoi collaboratori, convinse Reagan a cercare altre fonti di ispirazione.

Contrariamente ai giudizi negativi rivoltigli, invece, un esempio pratico di come le sue letture diano vita ad un ulteriore processo creativo lo troviamo nell’album The Ghost of Tom Joad, nel quale, già a partire dallo stesso titolo, il riferimento alla letteratura si fa esplicito[7].

Pubblicato nel 1995, l’album si presenta come una sorta di rielaborazione di materiale letterario, musicale,  cinematografico e giornalistico già esistente e riadattato alla realtà contemporanea dell’artista. Egli non può fare a meno di cogliere il fatto che realtà sociali come quelle degli emigrati (nel suo caso clandestini!), dei disoccupati, degli emarginati già ritratti da artisti quali John Steinbeck, Woody Guthrie, Dale Maharidge, John Ford e altri non sono superate, ma assolutamente attuali e, per questo, non trascurabili.

In un articolo apparso su la Repubblica il giorno dopo un suo concerto a Roma, leggiamo:

“... le sue canzoni a partire dal primo verso di “The Ghost of Tom Joad” ... non lasciano spazio agli equivoci, sono affilate, violente, specchi veritieri e implacabili dei mali della società del benessere ... L’America che viene decritta da questa scaletta è un paese sofferente, esplosivo, retto da conflitti sociali, non più fiducioso nel mito della Terra Promessa ...”[8] .

            I dodici brani contenuti nell’album The Ghost of Tom Joad, quasi a sottolineare la profondità dei temi trattati, vengono eseguiti in chiave prevalentemente acustica[9]. A tal proposito è interessante notare che periodicamente questo artista rock sembra avvertire il bisogno di accantonare i suoi tipici lunghi concerti travolgenti, accompagnato dalla sua rock band, per favorire esibizioni da solista (come nella migliore tradizione dei folk-singer cui, comunque, appartiene), destinate ad un pubblico ristretto[10], al quale chiede, peraltro, di rimanere in silenzio per poter creare l’atmosfera adatta.

Già nel 1982 aveva dato vita ad un album acustico, Nebraska, attraversando un “certo periodo”[11], caratterizzato da una profonda solitudine. In realtà, si trattava anche di una reazione all’era reaganiana[12].

            Altro elemento comune a Nebraska è dato da un particolare apparentemente trascurabile: la copertina.

Tutti gli album di Springsteen, eccezion fatta per quelli in questione, presentano sempre una copertina nella quale compare lo stesso artista[13]. Nel caso di Nebraska e The Ghost of Tom Joad, invece, la natura dei temi trattati viene, in qualche modo, preannunciata dalle immagini scelte: nel primo caso, vi è la foto di una lunga strada desolata tipica di territori americani quali quelli del Nebraska. Nel secondo caso, invece, il soggetto è ancor più simbolico. In essa, infatti, compare, in un gioco di chiaroscuro, un uomo dalle spalle nude e il volto in totale ombra. Per la sua realizzazione, Springsteen si è affidato al grafico Eric Dinyer il quale nel descrivere le caratteristiche principali dei suoi lavori ha affermato che:

 

… through the influence of Rembrandt, I use the expressive Chiaroscuro effects of light and shadow. Additionally, my work plays upon the landscape of psychological topography and attempts to create a world of dreams and nightmares based in part on the words of poets ...[14]

 

            Alla luce delle parole del grafico e, soprattutto, alla luce dei temi trattati all’interno dell’album, risulta evidente che la scelta di Springsteen non è stata del tutto casuale, ma risponde a una esigenza ben precisa. L’immagine in questione, infatti, rimanda a tutta una serie di uomini che vivono all’ombra di un Paese notoriamente splendido e dove, nell’immaginario collettivo, a chiunque viene offerta la possibilità di realizzare un sogno. L’uomo della copertina, dunque, non può mostrare un viso dai lineamenti chiari e perfettamente distinguibili in quanto racchiude in sé quelli di tutti coloro i quali, per motivi diversi, sono stati traditi da una realtà amara, dura, nella quale sogno e incubo convivono più di quanto ci si possa aspettare.

In occasione di un suo concerto europeo lo stesso Springsteen affermò: “In America si fa una promessa, che è quella che laggiù chiamiamo il sogno americano, vale a dire il diritto di vivere la propria vita con decoro e dignità ... Ma laggiù, e adesso anche in molti altri posti del mondo, quel sogno è vero solo per poche, pochissime persone ...”.

Convinto, all’inizio della propria carriera, che ogni uomo avesse l’opportunità di riscattarsi, in un modo o in un altro, da una vita buia, frustrante e piena di privazioni[15], ad un certo punto (ovviamente frutto di una crescita personale) si rese conto che non sempre tale riscatto è riconducibile ai propri desideri e capacità.

Dalla maturazione, rielaborazione ed attualizzazione di queste attente osservazioni della realtà, sono nate opere come Nebraska (1982), The Ghost of Tom Joad (1995) o Devils and Dust (2005)[16].

            Undici dei dodici brani che vanno a costituire l’album del 1995 hanno, pertanto, al centro del proprio interesse, le vicende di vari uomini, appartenenti a etnie differenti, con esperienze personali differenti, ma tutti accomunati da un finale rovinoso, triste, che lascia pochissimo spazio (o, meglio, nessuno) alla speranza che le cose possano cambiare.

Così, per citare solo alcuni esempi, in “Balboa Park”, “Sinaloa Cowboys”, “The Line” e “Across the Border”[17], incontriamo i messicani che cercano di oltrepassare il confine con gli Stati Uniti, alla ricerca di una vita migliore che solamente il mito del Sogno Americano può offrire loro (si tratterà solamente di un mito); incontriamo gli statunitensi di “Youngstown” e “The New Timer”, vittime di una realtà socio-economica nella quale non c’è spazio per tutti, indipendentemente dalle loro capacità; o ancora, in “Galveston Bay”, troviamo il reduce della guerra nel Vietnam, che sente minata la sicurezza del proprio Paese dall’arrivo di stranieri che gli “ruberanno” il lavoro o altereranno gli equilibri della sua città.

E che dire della stessa title track? In essa vengono richiamate, implicitamente ed esplicitamente, varie figure, varie situazioni sociali e un Tom Joad che, da semplice protagonista del romanzo di Steinbeck, qui pare assurgere a simbolo di una condizione umana, che non può più essere rappresentativa del solo periodo della Grande Depressione del 1929, ma che, al contrario, diviene attualissima, quasi a voler sottolineare che alle grandi potenze mondiali sta sfuggendo qualcosa d’importante: il diritto di ogni essere umano di vedere rispettata la propria dignità.

The Ghost of Tom Joad  può dunque essere considerato un album “impegnato”, i cui testi vogliono trasmettere qualcosa d’importante, delle verità amare, attraverso le micro-storie di personaggi che, insieme, vanno a costituire la forza motrice di quel grande Paese che è l’America, con tutte le contraddizioni in esso contenute.

Una possibile chiave di lettura nell’accostarsi ai testi qui contenuti è la suddivisione ed il raggruppamento in tematiche, indipendentemente dall’ordine in cui le relative canzoni si presentano nell’album[18]. Tra di esse, infatti, possiamo distinguere la prima traccia, “The Ghost of Tom Joad”, la quale può essere considerata una sorta di  summa di tutto ciò che verrà successivamente narrato.

Un secondo gruppo è rappresentato dai quei testi (“Sinaloa Cowboys”- “Balboa Park”- “The Line” e “Across the Border”) che hanno come protagonisti i messicani precedentemente citati, alla ricerca di un posto in cui vivere dignitosamente e presto smentiti dalla cruda realtà.

Un terzo gruppo è costituito dal testo della canzone “Galveston Bay”, che, attraverso una tecnica interessante, affronta il tema della xenofobia, passando per quello del Vietnam (più volte trattato dall’artista).

Un quarto gruppo, in cui compaiono “Youngstown” e “The New Timer”, che, a partire dai racconti presenti in Journey to Nowhere[19] di Dale Maharidge con foto di Michael Williamson, presentano l’altra faccia del sogno Americano, dal punto di vista di cittadini americani ritrovatisi esclusi dalle nuove politiche economico-sociali.

Un quinto gruppo, cui appartengono i testi di “Straight Time” e  “Highway 29”, in cui ricompaiono delle figure “classiche” nelle canzoni di Springsteen, le quali, a partire da una condizione di apparente equilibrio sociale, ad un certo punto agiscono in modo illecito.

Infine, una traccia, “Dry Lightning”, che, implicitamente, dimostra come  la vita di ogni individuo sia intimamente legata a quella degli altri. Di conseguenza, spesso, le brutte esperienze altrui finiscono con il condizionare la nostra stessa esistenza. Nel caso specifico: l’amara consapevolezza di una donna dell’incapacità di poter ricevere dagli altri ciò di cui si ha realmente bisogno, diventerà un rifiuto d’amore nei confronti di un uomo il quale, inevitabilmente, sarà costretto a subirne le frustranti conseguenze.

            Indipendentemente dalle differenze tematiche (comunque superate da un legame intimo tra tutti i personaggi) va, però, ricordato che la principale intenzione di Springsteen è quella di dar voce a un universo popolato da personaggi  tristi, che vivono la loro vita ai margini della realtà, in un continua lotta per la sopravvivenza, fisica o psicologica. La sua voce, la sua figura si eclissano nelle tracce composte, dove i riflettori vengono esclusivamente puntati sui volti di uomini ai quali, almeno per una volta nella vita, viene data l’opportunità di dare libero sfogo alle proprie frustrazioni, incertezze e silenziose rivendicazioni di un proprio spazio in una terra che dovrebbe essere di e per tutti.



[1] Antonella D’Amore,  Mia città di rovine. L’america di Bruce Springsteen, Manifestolibri, Roma 2002, pag. 15.
[2] In realtà, tale esclusione riguardava soprattutto i gruppi afro-americani e latino-americani. La famiglia Springsteen, di origini italo-irlandesi, rappresentava una sorta d’eccezione.
[3] Critico musicale che, dopo aver assistito ad una performance di Springsteen allo Harvard Square Theatre nel 1974, scrisse di aver visto il futuro del rock and roll.
[4]Dave Marsh, Glory Days, Sperling & Kupfer, Milano 1988, trad. italiana di Tullio Dobner, pag. 39.
[5]Alessandro Portelli, introduzione al libro Mia città di rovine. L’America di Bruce Springsteen, Antonella D’amore, Manifestolibri, Roma 2002, pag. 9.
[6]Durante un concerto a Pittsburgh disse:  “Qualche giorno fa il Presidente ha fatto il mio nome e mi sono domandato quale dei miei dischi gli fosse piaciuto ... Probabilmente non Nebraska”. Quest’ultimo fu infatti il primo album nato, anche, da una profonda e amara reazione alla politica reaganiana.
[7]Tom Joad è protagonista, assieme agli altri membri della sua famiglia, del romanzo The Grapes of Wrath di Steinbeck del 1939.
[8]Alba Solaro, “È lui Bruce Springsteen un eroe dei nostri tempi. La sua chitarra al servizio della working class”, la Repubblica, sez. Spettacolo, giovedì 11 Aprile 1996
[9]L’unica canzone totalmente acustica è “The New Timer”. Per tutte le altre l’artista ricorre anche ad altri strumenti  (alcuni dei quali elettrici).  Il concerto fu però acustico.
[10] Il concerto di Roma del 10 Aprile 1996 si tenne nell’Auditorium di Santa Cecilia.
[11]Dave Marsh, Glory Days, Sperling & Kupfer, Milano 1988, trad. italiana di Tullio Dobner, pag. 100.
[12] Ibidem.
[13]In realtà, il suo primo album, Greetings from Asbury Park, ha una copertina simile a una cartolina. Tuttavia, nel retro compare la foto dell’artista.
[14]Intervista rilasciata da Eric Dinyer e pubblicata sul sito Altpick.com. The source for creative talent and information, http://altpick.com/spot/dinyer/dinyer.php
“…sotto l’influenza di Rembrandt, utilizzo gli effetti espressivi di luce ed ombra propri del Chiaroscuro. Inoltre, il mio lavoro mette in evidenza i tratti della topografia psicologica e prova a creare un mondo di sogni e incubi basato in parte sulle parole dei poeti…”
[15]Tale necessità di riscatto nasceva dalla personale esperienza familiare: la sua era una tipica “working class family”, costretta a fare salti mortali per poter arrivare alla fine del mese.
[16]Come nei due album già citati, troviamo, ancora una volta, personaggi stanchi di vedere calpestata la propria dignità.
[17]In realtà, come si vedrà successivamente, questa canzone sembra ritrarre il momento immediatamente precedente al crollo di ogni speranza.
[18]Più oltre si vedrà che in occasione dei concerti lo stesso Springsteen ha eseguito i brani seguendo un ordine “tematico”.
[19]Titolo completo: Journey to Nowhere. The Saga of the New Underclass, Hyperion, New York, seconda edizione 1996.

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