Capitolo primo
The Ghost of Tom Joad: un album per non dimenticare
Bruce Springsteen,
cantante di fama internazionale, è stato frequentemente vittima di giudizi
troppo affrettati e poco lusinghieri. Spesso si è voluto scorgere nella sua
figura l’immagine classica della rockstar
ipocritamente impegnata nel sociale e, in verità, tutta concentrata a
promuovere la propria immagine.
Una delle accuse più recenti risale
proprio al 2002, quando, dopo gli attentati al World Trade Center di New York del Settembre 2001, venne pubblicato
l’album The Rising, nel quale viene
ben descritto lo stato emotivo in cui versava l’America il giorno dopo la
strage.
In realtà, ci troviamo
dinanzi a un cantautore la cui vita e produzione artistica sembrano seguire un
percorso abbastanza coerente, come può
evincersi da un’analisi attenta dei suoi testi. Sin dagli esordi, infatti,
oggetto d’interesse è sempre stata la realtà sociale del suo Paese, con
particolare attenzione per “l’ambiente del proletariato e sottoproletariato
urbano giovanile delle città della costa orientale degli Stati Uniti”[1].
Tale interesse nasce proprio a partire
dalle sue origini: membro di una delle tante famiglie che, negli anni ’50 e ’60,
si ritrovarono escluse da quella che era la situazione economica particolarmente
prospera della quale poteva godere la maggioranza delle famiglie statunitensi[2].
Originario di una piccola cittadina
del New Jersey, Freehold, l’ambiente in cui crebbe fu prevalentemente antintellettuale.
Tuttavia, ad un certo punto, sotto la spinta di colui che ne consacrò la fama,
Jon Landau[3]
(suo produttore ed amico), cominciò ad assaporare anche il piacere della
lettura.
Così, qualche anno
dopo, arrivò a dire: “... mi è parso che avevamo tutti una cosa in comune e
cioè che non ne sapevamo abbastanza, non sapevamo abbastanza di quello che ci
succedeva. Facendo un esempio, solo ora che ho trentun’ anni mi sono messo a
leggere la storia degli Stati Uniti ... E il fatto è che ho cominciato a
imparare come mai le cose oggi stanno così e non in un’altra maniera, come si
finisce per essere una vittima senza nemmeno saperlo. E come la gente invecchia
e muore senza avere mai avuto un giorno di soddisfazione o pace interiore in
tutta la vita.”[4]
Era il 1981 quando
Springsteen pronunciò queste parole dinanzi al pubblico di Stoccolma, accorso a
vedere un concerto rock. Da quel momento le citazioni di film o libri furono
frequenti e non perché ci troviamo dinanzi al classico artista che assume “pose
da intellettuale”[5], ma, semplicemente, perché
quest’artista pensa fermamente che la sua arte gli offra la possibilità di
comunicare qualcosa al suo pubblico, qualcosa che sia realmente importante.
Aggiungiamo a
questa convinzione una sensibilità profonda e un’attenzione particolare verso
tutto ciò che lo circonda, un’attenzione rivolta alla vita degli uomini comuni
che lottano nel quotidiano, con la conseguente sequela di frustrazioni,
emarginazioni, ingiustizie: ciò che ne viene fuori è un prodotto che, oltre ad
offrire della buona musica, può lasciare la sensazione di dover riflettere su
qualcosa o, ancora meglio, di doversi impegnare nella comprensione di realtà
che, pur non toccandoci personalmente, esistono.
Altro elemento
comune a tutti i testi è il teatro dell’azione: l’America dei giorni nostri.
Questa caratteristica ha spesso tratto in inganno non poche persone (critici,
commentatori o semplici ascoltatori), le quali hanno voluto scorgere nella figura
di Springsteen quella del “bullo” Americano, vuoto, privo di validi argomenti e
tutto concentrato ad esaltare le meraviglie di quella Terra Promessa cui ha
avuto la “fortuna“ di appartenere.
In un’occasione
l’equivoco fu così clamoroso da creare un piccolo incidente diplomatico con
l’allora candidato alla presidenza degli Stati Uniti, Ronald Reagan: nel 1984,
anno della pubblicazione dell’album Born
in the U.S.A., il Presidente uscente, alla ricerca della riconferma, cercò
di utilizzare la title track come
inno introduttivo della sua campagna elettorale, elogiandone i contenuti
patriottici; una gaffe quasi
spassosa, se si considera che il testo trasuda di severe critiche nei confronti
della politica socio-economica degli Stati Uniti. Un riferimento esplicito di
Springsteen alla cattiva interpretazione da parte del Presidente[6]
e, probabilmente, una più attenta valutazione del testo da parte dei suoi
collaboratori, convinse Reagan a cercare altre fonti di ispirazione.
Contrariamente ai
giudizi negativi rivoltigli, invece, un esempio pratico di come le sue letture
diano vita ad un ulteriore processo creativo lo troviamo nell’album The Ghost of Tom Joad, nel quale, già a
partire dallo stesso titolo, il riferimento alla letteratura si fa esplicito[7].
Pubblicato nel
1995, l’album si presenta come una sorta di rielaborazione di materiale letterario, musicale, cinematografico e giornalistico già esistente e
riadattato alla realtà contemporanea dell’artista. Egli non può fare a meno di
cogliere il fatto che realtà sociali come quelle degli emigrati (nel suo caso
clandestini!), dei disoccupati, degli emarginati già ritratti da artisti quali John
Steinbeck, Woody Guthrie, Dale Maharidge, John Ford e altri non sono superate,
ma assolutamente attuali e, per questo, non trascurabili.
In un articolo
apparso su la Repubblica il
giorno dopo un suo concerto a Roma, leggiamo:
“... le sue canzoni a partire dal
primo verso di “The Ghost of Tom Joad” ... non lasciano spazio agli equivoci, sono
affilate, violente, specchi veritieri e implacabili dei mali della società del
benessere ... L’America che viene decritta da questa scaletta è un paese
sofferente, esplosivo, retto da conflitti sociali, non più fiducioso nel mito
della Terra Promessa ...”[8]
.
I dodici brani contenuti nell’album The Ghost of Tom Joad, quasi a
sottolineare la profondità dei temi trattati, vengono eseguiti in chiave
prevalentemente acustica[9].
A tal proposito è interessante notare che periodicamente questo artista rock sembra avvertire il bisogno di
accantonare i suoi tipici lunghi concerti travolgenti, accompagnato dalla sua rock band, per favorire esibizioni da
solista (come nella migliore tradizione dei folk-singer
cui, comunque, appartiene), destinate ad un pubblico ristretto[10],
al quale chiede, peraltro, di rimanere in silenzio per poter creare l’atmosfera
adatta.
Già nel 1982 aveva dato vita ad un
album acustico, Nebraska, attraversando
un “certo periodo”[11],
caratterizzato da una profonda solitudine. In realtà, si trattava anche di una reazione
all’era reaganiana[12].
Altro elemento comune a Nebraska è dato da un particolare
apparentemente trascurabile: la copertina.
Tutti gli album di Springsteen,
eccezion fatta per quelli in questione, presentano sempre una copertina nella quale
compare lo stesso artista[13].
Nel caso di Nebraska e The Ghost of Tom Joad, invece, la natura
dei temi trattati viene, in qualche modo, preannunciata dalle immagini scelte:
nel primo caso, vi è la foto di una lunga strada desolata tipica di territori americani
quali quelli del Nebraska. Nel secondo caso, invece, il soggetto è ancor più
simbolico. In essa, infatti, compare, in un gioco di chiaroscuro, un uomo dalle
spalle nude e il volto in totale ombra. Per la sua realizzazione, Springsteen si
è affidato al grafico Eric Dinyer il quale nel descrivere le caratteristiche
principali dei suoi lavori ha affermato che:
… through the influence of
Rembrandt, I use the expressive Chiaroscuro effects of light and shadow.
Additionally, my work plays upon the landscape of psychological topography and
attempts to create a world of dreams and nightmares based in part on the words
of poets ...[14]
Alla luce delle parole del grafico e,
soprattutto, alla luce dei temi trattati all’interno dell’album, risulta
evidente che la scelta di Springsteen non è stata del tutto casuale, ma
risponde a una esigenza ben precisa. L’immagine in questione, infatti, rimanda
a tutta una serie di uomini che vivono all’ombra di un Paese notoriamente
splendido e dove, nell’immaginario collettivo, a chiunque viene offerta la
possibilità di realizzare un sogno. L’uomo della copertina, dunque, non può
mostrare un viso dai lineamenti chiari e perfettamente distinguibili in quanto
racchiude in sé quelli di tutti coloro i quali, per motivi diversi, sono stati
traditi da una realtà amara, dura, nella quale sogno e incubo convivono più di
quanto ci si possa aspettare.
In occasione di un
suo concerto europeo lo stesso Springsteen affermò: “In America si fa una
promessa, che è quella che laggiù chiamiamo il sogno americano, vale a dire il
diritto di vivere la propria vita con decoro e dignità ... Ma laggiù, e adesso
anche in molti altri posti del mondo, quel sogno è vero solo per poche,
pochissime persone ...”.
Convinto,
all’inizio della propria carriera, che ogni uomo avesse l’opportunità di
riscattarsi, in un modo o in un altro, da una vita buia, frustrante e piena di privazioni[15],
ad un certo punto (ovviamente frutto di una crescita personale) si rese conto
che non sempre tale riscatto è riconducibile ai propri desideri e capacità.
Dalla
maturazione, rielaborazione ed attualizzazione
di queste attente osservazioni della realtà, sono nate opere come Nebraska (1982), The Ghost of Tom Joad (1995) o Devils
and Dust (2005)[16].
Undici dei dodici brani che vanno a
costituire l’album del 1995 hanno, pertanto, al centro del proprio interesse,
le vicende di vari uomini, appartenenti a etnie differenti, con esperienze
personali differenti, ma tutti accomunati da un finale rovinoso, triste, che
lascia pochissimo spazio (o, meglio, nessuno) alla speranza che le cose possano
cambiare.
Così,
per citare solo alcuni esempi, in “Balboa
Park”, “Sinaloa Cowboys”, “The Line” e “Across the Border”[17], incontriamo i messicani
che cercano di oltrepassare il confine con gli Stati Uniti, alla ricerca di una
vita migliore che solamente il mito del Sogno
Americano può offrire loro (si tratterà solamente di un mito); incontriamo
gli statunitensi di “Youngstown” e “The New Timer”, vittime di una realtà socio-economica nella quale non c’è spazio
per tutti, indipendentemente dalle loro capacità; o ancora, in “Galveston Bay”,
troviamo il reduce della guerra nel Vietnam, che sente minata la sicurezza del
proprio Paese dall’arrivo di stranieri che gli “ruberanno” il lavoro o
altereranno gli equilibri della sua città.
E
che dire della stessa title track? In
essa vengono richiamate, implicitamente ed esplicitamente, varie figure, varie
situazioni sociali e un Tom Joad che, da semplice protagonista del romanzo di
Steinbeck, qui pare assurgere a simbolo di una condizione umana, che non può più
essere rappresentativa del solo periodo della Grande Depressione del 1929, ma
che, al contrario, diviene attualissima, quasi a voler sottolineare che alle
grandi potenze mondiali sta sfuggendo qualcosa d’importante: il diritto di ogni
essere umano di vedere rispettata la propria dignità.
The Ghost of Tom Joad può dunque essere considerato un album
“impegnato”, i cui testi vogliono trasmettere qualcosa d’importante, delle
verità amare, attraverso le micro-storie di personaggi che, insieme, vanno a
costituire la forza motrice di quel grande Paese che è l’America, con tutte le
contraddizioni in esso contenute.
Una
possibile chiave di lettura nell’accostarsi ai testi qui contenuti è la
suddivisione ed il raggruppamento in tematiche, indipendentemente dall’ordine
in cui le relative canzoni si presentano nell’album[18].
Tra di esse, infatti, possiamo distinguere la prima traccia, “The Ghost of Tom
Joad”, la quale può essere considerata una sorta di summa
di tutto ciò che verrà successivamente narrato.
Un
secondo gruppo è rappresentato dai quei testi (“Sinaloa Cowboys”- “Balboa Park”- “The Line” e “Across the Border”)
che hanno come protagonisti i messicani precedentemente citati, alla ricerca di
un posto in cui vivere dignitosamente e presto smentiti dalla cruda realtà.
Un
terzo gruppo è costituito dal testo della canzone “Galveston Bay”, che,
attraverso una tecnica interessante, affronta il tema della xenofobia, passando
per quello del Vietnam (più volte trattato dall’artista).
Un
quarto gruppo, in cui compaiono “Youngstown” e “The New Timer”, che, a partire
dai racconti presenti in Journey to
Nowhere[19] di Dale Maharidge
con foto di Michael Williamson, presentano l’altra faccia del sogno Americano,
dal punto di vista di cittadini americani ritrovatisi esclusi dalle nuove
politiche economico-sociali.
Un
quinto gruppo, cui appartengono i testi di “Straight Time” e “Highway 29” , in cui ricompaiono delle figure
“classiche” nelle canzoni di Springsteen, le quali, a partire da una condizione
di apparente equilibrio sociale, ad un certo punto agiscono in modo illecito.
Infine,
una traccia, “Dry Lightning”, che, implicitamente, dimostra come la vita di ogni individuo sia intimamente
legata a quella degli altri. Di conseguenza, spesso, le brutte esperienze
altrui finiscono con il condizionare la nostra stessa esistenza. Nel caso
specifico: l’amara consapevolezza di una donna dell’incapacità di poter
ricevere dagli altri ciò di cui si ha realmente bisogno, diventerà un rifiuto
d’amore nei confronti di un uomo il quale, inevitabilmente, sarà costretto a
subirne le frustranti conseguenze.
Indipendentemente
dalle differenze tematiche (comunque superate da un legame intimo tra tutti i
personaggi) va, però, ricordato che la principale intenzione di Springsteen è
quella di dar voce a un universo popolato da personaggi tristi, che vivono la loro vita ai margini
della realtà, in un continua lotta per la sopravvivenza, fisica o psicologica.
La sua voce, la sua figura si eclissano nelle tracce composte, dove i
riflettori vengono esclusivamente puntati sui volti di uomini ai quali, almeno
per una volta nella vita, viene data l’opportunità di dare libero sfogo alle
proprie frustrazioni, incertezze e silenziose rivendicazioni di un proprio
spazio in una terra che dovrebbe essere di e per tutti.
[1] Antonella D’Amore, Mia città di rovine. L’america di Bruce
Springsteen, Manifestolibri, Roma 2002, pag. 15.
[2] In realtà, tale esclusione riguardava soprattutto i gruppi
afro-americani e latino-americani. La famiglia Springsteen, di origini
italo-irlandesi, rappresentava una sorta d’eccezione.
[3] Critico musicale che, dopo aver assistito ad una performance di Springsteen allo Harvard
Square Theatre nel 1974, scrisse
di aver visto il futuro del rock and roll.
[4]Dave Marsh, Glory Days,
Sperling & Kupfer, Milano 1988, trad. italiana di Tullio Dobner, pag. 39.
[5]Alessandro Portelli, introduzione al libro Mia città di rovine. L’America di Bruce Springsteen, Antonella
D’amore, Manifestolibri, Roma 2002, pag. 9.
[6]Durante un concerto a Pittsburgh disse:
“Qualche giorno fa il Presidente ha fatto il mio nome e mi sono
domandato quale dei miei dischi gli fosse piaciuto ... Probabilmente non Nebraska”. Quest’ultimo fu infatti il
primo album nato, anche, da una profonda e amara reazione alla politica
reaganiana.
[7]Tom Joad è protagonista, assieme agli altri membri della sua famiglia,
del romanzo The Grapes of Wrath di
Steinbeck del 1939.
[8]Alba Solaro, “È lui Bruce Springsteen un eroe dei nostri tempi. La sua
chitarra al servizio della working class”,
la Repubblica ,
sez. Spettacolo, giovedì 11 Aprile 1996
[9]L’unica canzone totalmente acustica è “The New Timer”. Per tutte le
altre l’artista ricorre anche ad altri strumenti (alcuni dei quali elettrici). Il concerto fu però acustico.
[10] Il concerto di Roma del 10 Aprile 1996 si tenne nell’Auditorium di Santa Cecilia.
[11]Dave Marsh, Glory Days,
Sperling & Kupfer, Milano 1988, trad. italiana di Tullio Dobner, pag. 100.
[12] Ibidem.
[13]In realtà, il suo primo album, Greetings
from Asbury Park, ha una copertina simile a una cartolina. Tuttavia, nel
retro compare la foto dell’artista.
[14]Intervista rilasciata da Eric Dinyer e pubblicata sul sito Altpick.com.
The source for creative talent and information, http://altpick.com/spot/dinyer/dinyer.php
“…sotto
l’influenza di Rembrandt, utilizzo gli effetti espressivi di luce ed ombra
propri del Chiaroscuro. Inoltre, il mio lavoro mette in evidenza i tratti della
topografia psicologica e prova a creare un mondo di sogni e incubi basato in
parte sulle parole dei poeti…”
[15]Tale necessità di riscatto nasceva dalla personale esperienza
familiare: la sua era una tipica “working class family”, costretta a fare salti
mortali per poter arrivare alla fine del mese.
[16]Come nei due album già citati, troviamo, ancora una volta, personaggi
stanchi di vedere calpestata la propria dignità.
[17]In realtà, come si vedrà successivamente, questa canzone sembra
ritrarre il momento immediatamente precedente al crollo di ogni speranza.
[18]Più oltre si vedrà che in occasione dei concerti lo stesso Springsteen
ha eseguito i brani seguendo un ordine “tematico”.
[19]Titolo completo: Journey to Nowhere. The Saga of the New
Underclass, Hyperion, New York, seconda edizione 1996.
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